Nazarena Crotta - La reclusa

Bisogna evitare tanto il tentare di offrire quel che è al di sopra delle forze del presente. Gesù guarda specialmente all’amore [di chi] offre. A Lui piace tanto anche una sola briciola … offerta con gioia, amore, fedeltà, [piuttosto] che un lauto pranzo offerto con scatti [d’impazienza] e [con] tristezza… per [avere] oltrepassa[to] le forze attuali. Bisogna andare avanti con umiltà, a poco a poco; così, l’anima si fortifica, prende coraggio

Nazarena Crotta

Per Julia Crotta, il Monastero camaldolese di Sant’Antonio Abate a Roma fu l’approdo di una lunghissima e sofferta ricerca vocazionale, cominciata geograficamente e culturalmente assai lontano.

Nata il 15 ottobre 1907 nel Connecticut, negli Stati Uniti, settima figlia di una coppia di immigrati italiani, studiò con successo musica e letteratura, nella quale si laureò, e praticò anche la danza e lo sport, avviandosi alla carriera professionale. Pur con le normali amicizie giovanili, non prese mai in considerazione l’idea del matrimonio. Scriverà più tardi all’Abbadessa:

“A diverse tappe della mia vita, da piccolissima, Dio mi diede grazie fuori dell’ordinario, e mi fece sentire, come Le dissi, che io ero chiamata a qualcosa di grande, fuori del comune, ignota per allora. Sempre sentivo che il matrimonio non era per me, e che io ero chiamata ad altro. Sentivo pure che un giorno mi sarebbe dato di sapere questa via fuori dell’ordinario che ero chiamata a seguire”.[1]

Nella Pasqua del 1934 questa “via fuori dell’ordinario” cominciò a delinearsi, in un’esperienza mistica che segnò per sempre la storia di Julia. Negli anni successivi avrebbe a più riprese cercato di raccontarne il contenuto tanto al confessore quanto all’abbadessa, a voce e per iscritto, pur nutrendo a riguardo un vivo riserbo:

“Quando parlo di cose straordinarie mi sento sempre un po’ inquieta perché temo di ingannare e di commettere chissà quante colpe contro l’umiltà; quindi, mi sono data a tacere sempre più tali cose”.[2]

Al di là delle sue circostanze specifiche – comunque difficili da esprimere – Nazarena prese sempre più coscienza del senso fondamentale di questa prima e determinante “cosa straordinaria” nella sua vita, del fatto cioè che “in un solo colpo, con una grazia fuori dell’ordinario, Dio mi attirò con forza irresistibile a sé, al deserto”[3].

La “chiamata al deserto”, che essa per lungo tempo intese nel suo senso letterale, come ritiro nel deserto di Giuda in Palestina, rimase tuttavia per moltissimi anni solo un’intima quanto incrollabile convinzione di Julia, sistematicamente negata e contraddetta da confessori e padri spirituali, fonte di sofferenza e di tormentata ricerca. Dopo una prima esperienza in un Carmelo di Newport negli Stati Uniti, su consiglio del padre spirituale si trasferì a Roma, e proprio presso le camaldolesi di sant’ Antonio Abate  trascorse sull’Aventino alcuni mesi di postulandato e noviziato. Entrò poi nuovamente nel Carmelo, dove visse cinque anni di intense sofferenze.

Scriverà molti anni dopo:

Passai  davvero attraverso il fuoco. Ero nel bel pieno della notte più terribile: quella dello spirito, e senza alcun aiuto o direzione”[4].

Ma proprio a questi anni di sofferenza, di ricerca ed attesa, Nazarena riconoscerà in seguito il ruolo imprescindibile di averla irrobustita e preparata a resistere alla vita di reclusione, quando questa potrà finalmente realizzarsi. Un autentico dono dello Spirito, sotto le apparenze di un lungo tormento. Alla fine, tra la “chiamata al deserto” nel 1934 e l’ingresso in reclusione nel Monastero di S. Antonio nel 1945, saranno trascorsi undici anni e mezzo.

Quando finalmente si dispose, con la morte nel cuore, ad accettare il fatto che lo stile di vita da lei cercato fosse non solo irrealizzabile ma piuttosto frutto di un’illusione, come da anni andavano ripetendole confessori e padri spirituali, le vie si aprirono tanto repentinamente quanto pianamente. La comunità camaldolese di sant’Antonio Abate sull’Aventino, dove già aveva vissuto alcuni mesi nel 1938-39, accettò di accoglierla come reclusa privata.

Il 21 novembre 1945, giorno del suo ingresso, il papa Pio XII la ricevette in udienza privata e benedisse il regolamento di reclusione, pur trovandolo “un po’ severo”. Qui, non certo in un deserto geografico come quello immaginato per tanti anni, cominciò a svilupparsi la vita che suor Nazarena aveva sempre cercato.

Il 15 dicembre 1947 fece professione privata di vita religiosa, assumendo il nome di suor Nazarena di Gesù in riferimento alla vita nascosta di Gesù a Nazaret:

Gesù visse 30 sui suoi 33 anni sulla terra chiuso nella casetta colla Sua diletta madre e con S. Giuseppe – ciò quando regnavano idolatria, paganesimo, ecc.; quando avrebbe potuto convertire tante anime colla Sua predicazione, operando strepitosi miracoli, ecc. Egoismo? O il fare la volontà del Padre, nel posto da Lui voluto, nel modo da Lui voluto? “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri; le vostre vie non sono le mie vie!”[5].

Il 31 maggio 1953 ottenne di poter emettere la professione solenne come monaca camaldolese, sancendo così l’appartenenza – tanto misteriosa e peculiare quanto inequivocabile – alla spiritualità camaldolese e alla comunità di S. Antonio in particolare.

Il 7 febbraio 1990, la sua morte fu contemplata da tutti i presenti come il transitus di una vera “amica di Dio”, segno eloquente dello spessore cristiano di tutta la sua esistenza.

 

Lettere:
[1] giugno 1953, all’Abbadessa m. Scolastica Berardi
[2] 1954-55, a don Anselmo Giabbani, direttore spirituale di Nazarena e Priore Generale dei Camaldolesi.
[3] giugno 1953, a m. Scolastica Berardi
[4] 1956, a don Anselmo Giabbani
[5] Da una lettera del 1975 all’abbadessa m. Ildegarde Ghinassi.

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